lunedì 6 gennaio 2014

Contaminazione e finzione: "Diceria dell'untore" di Gesualdo Bufalino

≈≈≈≈≈≈[ ]≈≈≈≈≈
 
Palermo, Trionfo della morte
Ancor prima di affrontare la lettura del romanzo, il titolo rivela e dissimula il contenuto della narrazione: Diceria dell’untore. Due dati sono subito evidenti: la finzione, o meglio la maschera (il teatro), e la malattia. Il primo dato contamina il secondo, il "contagio", insufflandolo d’una magniloquenza pomposa e decadente. Non di peste si tratta tuttavia, bensì di tisi, sotto la cui veste cava di corpo malato si nasconde la malattia della contemporaneità: il crollo d’ogni certezza e punto di riferimento, avvelenato altresì dalle ferite aperte del secondo conflitto mondiale, e la sgretolazione dell’identità dell’uomo.


Gesualdo Bufalino
La genesi del romanzo è di per sé sorprendente: iniziato nei primi anni Cinquanta, viene sottoposto a un inesausto labor limae fino agli anni Settanta, per poi veder la luce nel 1981 dietro l’affettuosa e tenace insistenza di Elvira Sellerio e Leonardo Sciascia. Gesualdo Bufalino, fino ad allora ignoto professore liceale di Comiso, da questo momento si impone come rivelazione magnifica nel panorama letterario e culturale d'Italia.

Sul palinsesto originario dell’opera vanno depositandosi concrezioni di semantica densità e finezza stilistica, linfa vitale delle molteplici ramificazioni tematiche che con precisione e acume intagliano le sfaccettature diamantine del soggetto principale. In apparenza – ma solo in apparenza – tale soggetto è una relazione amorosa di tragica transitorietà fra due naufraghi della storia, che scontano un'attesa esiziale nel limbo cloroformico d’un sanatorio palermitano, la Rocca, prigione e teatro di fragili esistenze destinate alla scomparsa e all’oblio.

Da questo palcoscenico verminoso scavato da dubbi e rimpianti, corroso da vani stratagemmi e patetiche farse, i personaggi del romanzo innalzano il loro canto dolente o smanioso, dimentico od ostinato, fingendosi pupari di se stessi prima di soccombere al tenebroso nulla. Eppure, come pupi, non sono che fantoccini mossi dai fili invisibili d'un passato dal quale non sanno affrancarsi, d'una fede in crisi che temono di abiurare, di una vita amara che sgocciola lenta sino all'estinzione. Il grado di effettiva libertà di queste figure non può che essere commisurato alla profondità introspettiva, alla consapevolezza di sé che hanno osato o saputo conquistare nel cammino doloroso verso il Golgota. Maggiore è la cognizione del dolore d’esistere, delle proprie fragilità, follie, finzioni fantasmatiche, più salda è la presa sui fili della propria esistenza.

Dopo un primo abbandono nella calda alcova dei pupi, per l’autore non c’è più spazio per finzioni o

autoinganni: le lusinghe vischiose d'uno stato patologico nel quale recitare il ruolo da protagonista sono sventate finalmente dal rombo aspro di una quotidianità inospitale, dalla presenza insistente, oltre il perimetro dell'Erebo ch'è la Rocca, della realtà. La realtà ch’è sì teatro di miserie e debolezze, meschinerie e fragilità, e tuttavia è mondo concreto, gravido di futuro, alimentato dalle “terribili possibilità della vita”, un mondo nel quale il protagonista sente di dover tornare, per quanto ciò significhi vestire i panni d’una semplice comparsa. Una comparsa, tuttavia, che reca con sé il portato inesauribile d’un viaggio orfico negli Inferi, un fardello esperienziale di morte e dolore che può soltanto tradursi, una volta scelta la limitatezza del reale, in una matura e consapevole accettazione della prosaica inevitabilità di vivere. Se prima accettava la contaminazione di una languida malattia, di un compiacente narcisismo mortifero, il protagonista decide quindi di tornare puparo di se stesso, sceglie di farsi nuovamente contaminare dalla materia sporca del reale.

Contaminazione è parola chiave indispensabile anche per decifrare la tipologia testuale: sul romanzo si innestano poesie, epigrafi, epitaffi alla Spoon River, lo schema di una partita di scacchi, partiture musicali, note al testo che disambiguano rimandi occulti, perifrasi oscure, allusioni e suggestioni, un indice tematico e perfino una postilla linguistica, nel quale l'autore dichiara apertamente la volontà di adoperare "una lingua archeologica, defunta, obbediente a un disegno di restaurazione signorile, di un recupero del registro alto dal lazzaretto dov'era in confino".

Il rischio di questa ipertrofica sovrabbondanza di stile e contenuto è quello di una opacità indigesta e resistente, l’anelito alla perfezione mette a repentaglio la trasparenza del messaggio e l’esito stesso dell’affanno compositivo. Eppure, per Gesualdo Bufalino, tutto ciò dilegua nel dominio di una remota possibilità: l'autore naviga tra marosi linguistici e abissi di profondità psicanalitica con una lirica leggerezza e un ironico, talora cinico, disinganno che travolgono il lettore in un gorgo sensoriale senza limitazioni, lo sprofondano nella materia pulsante del mondo, lo costringono a confrontarsi con il palpitare limaccioso del greve sangue della vita, col suo legame inscindibile con la morte e la dissoluzione, con la vanità splendida e ineluttabile di una piena esistenza.


Gesualdo Bufalino, Diceria dell'untore, Tascabili Bompiani 2012

Nessun commento:

Posta un commento