domenica 19 gennaio 2014

Arthur Schnitzler e la ragazza dalle tredici anime

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Nella Ragazza dalle tredici anime viene alla luce un ritratto inedito di due personalità poliedriche e contraddittorie: quella del grande scrittore austriaco Arthur Schnitzler, prolifico autore di romanzi, racconti e opere teatrali di complessa indagine psicologica, e una giovane ragazza della media borghesia, Hedy Kempny, che intreccia con Schnitzler un lungo rapporto di affettuosa amicizia, attraversato da una tensione erotica mai compiutamente realizzata. Si tratta di una testimonianza eccezionale che rivela il lato più intimo dei due protagonisti, offrendo una chiave di accesso preziosa alla loro vita interiore. 

Arthur Schnitzler
Il carteggio tra i due è intercalato da estratti del diario di Hedy, che spiegano, ampliano e talvolta complicano l’intreccio di vicissitudini che la avvicinano o allontanano dal grande scrittore. Intelligente e anticonformista, Hedy è una ragazza che incarna tutte le antinomie e i drammi di un'epoca tumultuosa, sorta dalle ceneri dell'impero austroungarico e dalle conseguenze disastrose della prima guerra mondiale. Nel tentativo di tracciare un percorso di vita autonomo, libero e autentico, svincolato dal conformismo borghese e fedele alle proprie inclinazioni, Hedy è pronta a superare ogni ostacolo. Nonostante il grigio e monotono impiego in una banca, indispensabile per conservare un’effettiva indipendenza economica, si impegna a coltivare i molteplici talenti e le passioni che la caratterizzano: studia recitazione, segue un corso di ginnastica, assiste a concerti e spettacoli teatrali, legge moltissimo, viaggia ancor più spesso, cogliendo ogni occasione che le si presenti, se necessario con piglio spregiudicato.
Il suo è un volo ad ali spiegate verso la maturità, talora oscillante e incerto, talora stabile e determinato. Nel suo mondo interiore può capitare che la malinconia e la mutevolezza, come imprevedibili correnti d’alta quota, sopprimano gli impeti gioiosi e infantili, o al contrario che un’ingenua fiducia nel futuro rischiari un paesaggio desolato di solitudine e separazioni. Si tratta quindi di un processo evolutivo tortuoso, talora colmo di dolore, eppure mai offuscato dall’autoinganno, dalla negazione, dalla rimozione. Un processo che accomuna ogni individuo e con il quale una giovane lettrice (la specificazione di genere appare inevitabile) trova spontaneo identificarsi. 
Per Hedy il grande scrittore è sempre presente, con una parola di incoraggiamento o di conforto, a stringerle con calore la mano malgrado la distanza che spesso li separa, ad accompagnarla con sguardo attento e affettuoso nella costruzione di un'identità matura, in grado di scendere a patti con l'impossibilità della perfezione, l'incomunicabilità dei sentimenti, la solitudine connaturata all’esistenza. L’intesa fra i due, tuttavia, non si può incasellare nello schema frusto e prevedibile di un rapporto padre-figlia, perché sarebbe riduttivo oltre che impreciso. La natura di questa relazione è infatti eccezionale: si tratta di un incontro fra due anime che si mettono a nudo l’una di fronte all’altra. Un incontro che, come confermano le lettere, rappresenta un unicum nel vissuto di entrambi. Hedy, infatti, è portata a stabilire rapporti improntati all’ideale di una trasparente autenticità, e questa condizione, per una splendida e inspiegabile alchimia, si riesce proprio a concretizzare con Arthur Schnitzler. Incuriosito dalle "tredici anime” di questa ragazza sensibile e anticonvenzionale, lo scrittore la sprona a esprimersi, ad aprire cuore e anima, a raccontare tutto di sé. Di fronte a una vitalità tracimante, a un candore esuberante e insieme ingenuo, l'iniziale, apparente freddezza di Schnitzler si stempera negli anni in un amore costante, colmo di premure, accoglienza, comprensione. Proprio perché consapevoli che “l'anima è un vasto paese”, entrambi riescono a conservare la freschezza rivoluzionaria di un rapporto maturo, non esclusivo, in grado di accogliere i silenzi come le irrefrenabili loquacità dell'anima, un rapporto eccezionale che giunge a conclusione solo per la morte prematura di Schnitzler, avvenuta il 31 ottobre 1931.

Ai lettori resta un’immagine di ariosa libertà e l'impressione che la felicità, per quanto sia una chimera, possa balenare imprevista in alcuni rapporti interpersonali. Questo, ovviamente, a condizione di essere disposti a mettersi in gioco, a interrogare le nostre paure più recondite e inconfessabili, a comprendere gli altri senza idee preconcette. In sostanza è quindi indispensabile porsi nell'atteggiamento corretto che consente di “cercare e saper riconoscere”, come scrisse Calvino nelle Città invisibili, “chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Hedy Kempny e Arthur Schnitzler hanno saputo ritagliare questo spazio l’uno per l’altra nel vasto paese delle loro anime.

Hedy Kempny, Arthur Schnitzler, La ragazza dalle tredici anime, Feltrinelli 1987


Alcune riflessioni sullo spettacolo "L.I. | Lingua Imperii" della compagnia Anagoor in scena al Teatro Elfo Puccini



Immagine reperita sul sito Web http://www.anagoor.com/

L.I. | Lingua Imperii non è uno spettacolo al quale assistere come inerti spettatori. 
Il composito linguaggio drammaturgico con cui la compagnia Anagoor mette in scena temi diversi, che ruotano attorno al fulcro della lingua piegata alla coercizione del potere, esige infatti apertura mentale e attenzione sincera, coraggiosa, e costante. Allo spettatore è richiesto un ruolo attivo, che si esplica non solo nell’accogliere senza pregiudizi uno spettacolo ibrido, che rompe gli schemi del teatro tradizionalmente inteso e abdica a qualsivoglia canovaccio, o nel mostrare una sensibilità profonda per la comprensione di un materiale magmatico, frammentario ed eterogeneo, ma soprattutto richiede disponibilità al superamento del piano della rappresentazione. Quando raggiunge il piano simbolico, lo spettatore viene risucchiato in una tempesta di evocazioni che investono l’intero pentagramma sensoriale e frugano negli angoli più riposti dell’animo umano. Parole, visioni, suoni, gesti sono le tessere di un mosaico multiforme che solo a livello superficiale si propone di indagare il rapporto problematico fra lingua e potere. L’obiettivo ultimo è, infatti, la riattivazione della memoria: lo spettatore deve essere disposto a sprofondare nell’inconscio collettivo, ad abbattere le fortificazioni erette dalla rimozione, a vincere il senso di colpa, il terrore o l’angoscia di essere stato o di scoprirsi, un giorno, preda o cacciatore. Questo interrogativo investe tutti, sia gli spettatori che gli attori, i quali si trasformano a loro volta in spettatori quando prendono posto nelle poltrone teatrali presenti in scena. La distanza fra attori e pubblico è dunque abolita, a ribadire la comune appartenenza al genere umano. 
Quando riesce a innescarsi una sorta di transfert fra il coro e lo spettatore, facilitato anche dall’uso sapiente di canti armonici, si può realizzare pienamente l’obiettivo ultimo della compagnia: proporre "un percorso che sia in grado di suscitare l’immemorabile, quel sepolto che lascia sgomenti e che proprio per questo - o per la natura stessa che accomuna tutti i fatti umani - è sottoposto ad un processo di oblio". Un sepolto che, nel mio caso, è riemerso a torcere lo stomaco, a premere il cuore contro la gabbia toracica, ad attraversare con un sussulto le membra.

Il filo conduttore è il dialogo tra due membri della Wehrmacht, il sottotenente Voss, appassionato linguista, e il capitano Aue, ottuso fautore dell’ideologia nazionalsocialista, di stanza in Caucaso nel 1942. Gli spettatori assistono a questo dialogo osservando due piccoli schermi che sovrastano il palcoscenico: sono queste "finestre" aperte sul passato che mettono in moto la rappresentazione, o meglio, la ri-evocazione. Oggetto di questo dialogo è la possibilità di circoscrivere (definire con regole precise) per poi cacciare (inteso come braccare) una popolazione di origini semitiche denominata "Ebrei delle Montagne". Questo frammento, che risulta particolarmente efficace per la scelta di riprodurlo in lingua originale, sfruttando tutta la potenza fonetica del tedesco, è tratto dal romanzo Le benevole di Jonathan Littell. Le Eumenidi, le "benevole", altro non sono che le Erinni della mitologia greca, divinità che perseguitano colui che si macchia dell'omicidio di consanguinei. E di consanguinei, in quanto appartenenti alla razza umana, sono i massacri e i genocidi perpetrati allo scopo di estirpare l’una o l’altra etnia dall’organismo inscindibile delle lingue e delle culture umane. Il Caucaso si pone quindi come emblema di questo intreccio indistricabile. Si tratta infatti di una regione montuosa il cui complesso etnico-linguistico è refrattario alla violenza sezionatoria del potere, che con modalità "veterinarie" tenta di catalogare e soggiogare ciò che è assente in ogni categoria animale, ciò che è carattere precipuo e distintivo dell’uomo: il linguaggio. 
Gli esiti di queste politiche, se non fossero catastrofici per le conseguenze prodotte, sarebbero del tutto grotteschi. Grottesca è la ricerca di un fondamento scientifico a qualsivoglia purezza identitaria che anima la discussione fra il sottotenente Voss e il capitano Aue, e grottesca è la politica linguistica sovietica, che fa calare dall’alto, per quelle lingue caucasiche che esistevano solo nell’oralità e non potevano contare sul retroterra consolidato di una produzione letteraria scritta, un alfabeto creato ad hoc a partire dai caratteri cirillici. Nell’ottica dell’antico principio del divide et impera, la creazione artificiosa di questi alfabeti, l'uno diverso dall'altro, mira a impedire la comprensione tra individui che parlano lingue affini. L’interesse del potere per la lingua non deve tuttavia stupire: la conquista dello spazio linguistico, con l’imposizione violenta di un codice estraneo, è una delle prime, vincenti strategie messe in atto dai colonizzatori sui colonizzati, proprio allo scopo di privare questi ultimi di una voce e dunque della dignità.

Stante il decadimento a condizione animale attraverso la sottrazione del linguaggio, appare coerente introdurre la nozione di caccia, dove il verbo cacciare è sagacemente declinato secondo le due principali accezioni della lingua italiana: "braccare" ed "espellere". Un’espulsione che diviene fisica solo a seguito di un procedimento più sottile, teso ad abolire le lingue altre in favore della lingua dell'impero. Una caccia che, come ricorda la truce leggenda di San Giuliano, da una singola goccia di sangue versato per dolo o banale incuria può assumere in breve tempo le proporzioni immani di una carneficina. E quella che flagellò l’Europa fino all’estremo confine caucasico durante gli anni del Reich fu una vera e propria caccia all’uomo, fiinalizzata alla carneficina e per la cui legittimazione era necessario stabilire regole precise che identificassero, senza tema di dubbio, i caratteri distintivi delle "prede". 
Le suggestioni zoomorfe attraversano tutti i frammenti dello spettacolo. Il sacrificio di Ifigenia, giovane figlia di Agamennone sgozzata come un agnello sacrificale per ottenere il favore degli dei in vista della guerra contro Troia, prende corpo nei giovani attori che popolano alla spicciolata lo spazio del palco. (Da Eschilo alla storia contemporanea corre un legame inscindibile, a ribadire l’universalità delle tematiche indagate sia dalla tragedia classica che da L.I.|Lingua Imperii.) I giovani attori portano sul capo una corona di rami e foglie, creata utilizzando i materiali in scena e funzionale ad esprimere tutta l'innocenza delle vittime designate. Nessuna parola viene pronunciata durante questa azione: a scandire i gesti e gli sguardi è un recitato fuori campo che in inglese, russo, francese e tedesco, sgrana quindici consigli per genitori che hanno perso un figlio. È lecito, tuttavia, chiedersi: quale responsabilità morale hanno i "padri", nella scomparsa di un’intera generazione di giovani uomini e donne europei?
La spoliazione linguistica, il silenzio imposto con violenza alle vittime, trova corrispondenza la spoliazione materiale dei vestiti, abbandonati in un mucchio al margine della scena. La rimozione dell’abito linguistico elimina dunque non solo il diaframma che permette il relazionarsi, il com-prendersi, ma degrada il soggetto a creatura priva di parola, dunque allo stato animale, a una bestia che è possibile macellare senza rimorsi. Ecco dunque formarsi una catasta di corpi umani, seminudi, che richiamano alla memoria le immagini abominevoli dei lager, delle stragi, dei genocidi. Privati della lingua, non possiamo dirci esseri umani.

Le immagini che scorrono quindi sullo schermo di fondo mostrano giovani dallo sguardo mite ridotti al silenzio da rozzi morsi, resi ciechi da strumenti creati con lacci di cuoio e ferraglia, resi sordi al gemito lugubre del vento di catastrofe che spazza il continente europeo. L'accostamento al dominio animale è rafforzato dalla presenza di corna e pelli di cervo, oltre che dai brevi fotogrammi che raffigurano un gregge di pecore. Per quanto sia innegabile la distanza abissale che contrappone le vittime ai carnefici, la cecità e il rifiuto di ascoltare a cui cede buona parte della società civile, la mimica tragica dei tre giovani successivamente in scena, che con una ripetizione ossessiva compiono gesti suggeriti da una presenza adulta alle loro spalle, e infine, in un singulto autodistruttivo di responsabilità, scelgono la via del suicidio, rimandano senz'altro a quella "zona grigia" così compiutamente descritta da Primo Levi nei Sommersi e salvati, e mettono in crisi ogni tentativo di riduzione manichea per aprire la strada all’"impotentia judicandi".

Al dominio dell'irrazionale, che per l’uomo si spalanca attraverso l’ebbrezza acefala dell’onnipotenza, il baratro della pulsione di morte, l’impero ignominioso della disumanità, può opporsi soltanto la ragione della memoria, l'unico argine, ancorché fallace, labile e imperfetto, per la futura salvaguardia della dignità umana.

Benché il mio giudizio sia nel complesso positivo, ritengo opportuno segnalare alcuni punti deboli dello spettacolo. Innanzitutto, considerando i temi affrontati, bisognerebbe parlare più di Silentium imperii causa che di Lingua Imperii. Questo titolo suggeriva infatti che la compagnia si sarebbe occupata, anche solo tangenzialmente, dell’opera di demolizione linguistica a cui il nazionalsocialismo condannò la lingua di Goethe e di Rilke, un processo distruttivo ben descritto da Steiner nel saggio The Hollow Miracle.  Alla folta serie di fonti letterarie in cui lo spettacolo affonda le radici poteva essere dedicato un approfondimento maggiore, mentre la parte visuale, per quanto sia apprezzabile nel contesto di una commistione dei materiali drammaturgici, appare a tratti eccessiva. La dilatazione del tempo può essere utile alla comunicazione tra attori e spettatori e può stimolare una riflessione profonda solo se non diventa superflua e ridondante. Tuttavia, in uno spettacolo che si propone di interpretare e rappresentare la privazione del linguaggio, può sembrare in ultima analisi legittimo il ricorso alla musica, al canto, alle immagini accuratamente accostate, poiché comunicano in modo diretto con quella parte più profonda dello spettatore che, forse, nessun linguaggio verbale è in grado di raggiungere.

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domenica 12 gennaio 2014

Il "nostos" impossibile: "La lente scura" di Anna Maria Ortese


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Non ho difficoltà a immaginare Anna Maria Ortese, il volto coperto da un paio di lenti scure, in viaggio lungo le strade di ferro, d’asfalto e di terra battuta della penisola italiana e del continente europeo, quasi le ultime immagini che la ritraggono, ormai anziana, nella casa di Rapallo abbiamo soppiantato per sempre, nella mia immaginazione di lettrice assidua e innamorata, le pupille di triste e sognante attesa che immortalano le poche fotografie dell’autrice da giovane.

In questa raccolta, che raggruppa reportage scritti fra il 1939 e il 1964 insieme a ben sedici scritti inediti, la lente scura è ovviamente il filtro attraverso il quale la scrittrice analizza e descrive la realtà: un velo di "malinconia e protesta" che le permette di trasfigurare il mondo in quadri astratti e visionari, permeati da metafore e ossimori, dove ad essere ritratta è la marginalità delle esistenze, il confino di classe, il fallimento della Ragione, l’irraggiungibile chimera della Verità.

Il cammino della Ortese non conosce tregua, il suo sguardo continua ad aprirsi sul mondo e gli itinerari non appaiono mai prestabiliti. Quando ciò avviene, un imprevisto, l’ubbia di un momento, il terrore irrazionale dell’aereo (si pensi all’interminabile viaggio in treno per raggiungere la delegazione italiana a Mosca), introducono un elemento di instabilità, di variazione, di casualità. Questa dimensione caotica trova espressione anche nella prosa, definita dalla stessa autrice come una "scrittura sbandata e ansiosa, spezzata, esitante", nonché nella struttura asimmetrica dei reportage all’interno del libro, organizzati secondo una tripartizione che resiste ogni contiguità cronologica, geografica e perfino tematica. 

L’impulso che dà l’abbrivio al peregrinare, per quanto occultato sotto una plausibile pretesa o una scelta razionale, sia essa la composizione di un reportage oppure la ricerca di una casa da affittare per alcuni mesi, è sempre da ricercarsi in una dimensione psicologica, strettamente intima. L’incitamento al viaggio è di natura emotiva, umorale, ondivaga come i cieli favolosi e variopinti su cui spesso indulge l'attenzione della scrittrice, quasi ai limiti della superstizione nel caso del soggiorno a Londra, che s’interrompe bruscamente per il cenno di un gatto randagio. Nel microcosmo interiore della Ortese le distanze si piegano in torsioni paradossali (valga come esempio il biglietto Milano-Napoli-La Spezia per raggiungere la Liguria), mentre i paesaggi urbani rivelano una trama di rimandi e analogie, memorie e similitudini che aboliscono ogni categoria spazio-temporale.

Su questo continuum, dove i confini di presente e passato si stemperano gli uni negli altri, aleggia l'impossibilità insanabile di sentirsi “a casa”: la precarietà, lo sradicamento sono il contraltare del desiderio disperante di un luogo in cui essere. Desiderio di fondo è quindi la ricerca di una patria, una terra dove avere cittadinanza in quanto donna, in quanto scrittrice, in quanto appartenente a una classe sociale svantaggiata. Come un fuscello spazzato da violenti flutti in mare aperto, la scrittrice si lascia sospingere dal silenzio piovoso di una Milano notturna all'ostilità sprezzante delle anticamere borghesi d’una Roma opulenta e indifferente, da una Napoli ch'è la matrice immaginifica da cui prende consistenza l'identità ortesiana ai latifondi di derelitta umanità del Meridione, dove tra pietre abbacinanti si conducono esistenze al limite della sussistenza. Tale è il bisogno di mettere radici che la scrittrice finisce vittima di un rapporto masochistico e squilibrato con i luoghi che vorrebbe eleggere a sua dimora: quando avverte il rifiuto di una città, la Ortese si scopre ad anelare il ritorno alla stessa metropoli dalla quale, solo pochi giorni prima, era fuggita al colmo della disperazione.

Il suo peregrinare, com'è prevedibile, si dimostra un nostos impraticabile: questa patria non ha alcuna esistenza geografica, alcun addentellato con il reale. L'unica patria possibile esiste invece negli incontri con l'alterità minuta e umile del dopoguerra italiano o della Russia sovietica, nelle scarne parole sbocconcellate da una giovane tabacchiera pugliese, nelle orbite fameliche e scavate dei figli dei briganti siciliani. Identità marginale ed emarginata, la scrittrice può trovare la propria heartland immateriale soltanto nell’umanità dolente che popola il mondo, nel “poco” o nel “nulla”, negli "Occhi – Occhi - Occhi e Voci dolci, umane, chiarissime"; in ultima analisi, dunque, nell’utopia: "La vita si muove, viaggia; e alta sui paesi come sulle campagne perse - mentre i convogli del tempo continuano a inseguirsi - alta sui paesi deserti e campagne mute, resta la mirabile, cara, fedele Utopia".

Anna Maria Ortese, La lente scura, Biblioteca Adelphi 2004