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Incurabile è la mobilità inquieta dell’occhio, che senza
posa, per sua natura acquatico, guizza come pesce sulle fondamenta della
memoria, intangibili e irreali nel loro costitutivo elemento: la Cathédrale engloutiee che è Venezia.
Il lettore che cercasse un canonico resoconto di viaggio, o
che si aspettasse un elogio puramente estetico della città lagunare, rimarrebbe
deluso. Brodskij non ha alcuna pretesa di comporre un testo strutturato e
organico: nel labirinto della memoria non si può che “perdere l’orientamento”, trasportati
alla deriva dal “fluire di un’acqua limacciosa nella stagione sbagliata dell’anno”.
Fluttuante come una gibigianna,
moltiplicato all’infinito da un gioco di specchi ossidati, il racconto è il
tentativo di catturare in una “rete impigliata nelle alghe sotto zero” l’elusivo
riflesso di una città (im)materiale, che affiora alla superficie della memoria
attraverso squarci e visioni, sospinta da branchi argentini di metafore
acquatiche, marine, zoomorfe, mostruose. Di fronte a una topografia che si
scioglie in una miriade d’ineffabili rivoli, è quindi necessario postulare la
suprema autonomia dell’occhio. Impossibile soggiogare alla ragione le viscide
squame della fenomenologia lagunare, che per un paradossale procedimento
inverso è materia d’immaginazione che si fa marmo e carne. La percezione, seppur
mediata dalla membrana osmotica del ricordo, precede la riflessione: “le
superfici - cioè la prima cosa che l’occhio registra - sono spesso più
eloquenti del loro contenuto”.
La ragione si offusca, è annebbiata: l’istanza cosciente
dell’uomo cede di fronte all’incalzare del subconscio, che avanza come “il
lento procedere del vaporetto attraverso la notte”. Lo sprofondare onirico
verso il primordiale, il mitologico, l’oscura notte fondativa dell’uomo, non
lascia tuttavia alcuno spazio per qualsivoglia indagine psicanalitica: i sogni
si ribellano al grande Inquisitore, Freud, il sostrato inconscio dichiara la
propria refrattarietà all'esegesi coerente della ragione. Non c’è
interpretazione perché la cornice supera il contenuto e poiché il contenuto è
avvolto dalla nebbia di calli campi canali, che conferisce alla città stessa una
dimensione di atemporalità. Simulacro di
non-esistenza, Venezia è dominio dell’immaginario, estuario al quale confluiscono
in gorghi e si confondono le correnti marine di passato, presente, futuro. L’unico riferimento temporale, ossia l’inverno,
stagione elettiva dei soggiorni di Brodskij a Venezia, sembra farsi espediente di
un inconscio desiderio/tentativo di ancorare, nella rigidità inclemente del ghiaccio, una
città dalle fondamenta illusorie, dove una poderosa risacca diluisce, travolge e
infine spazza via, trascinandole in alto mare, le categorie di spazio e tempo.
L’autore, tuttavia, pare a proprio agio in questa sostanza sfuggente,
effimera, salmastra come una lacrima, “il modo in cui una retina ammette la
propria incapacità di trattenere la bellezza”, e sereno nella certezza che “non
posseder[à]mai questa città”.
Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili, Adelphi 2012