L.I. | Lingua Imperii non è uno spettacolo al quale assistere come inerti
spettatori.
Il composito linguaggio drammaturgico con cui la compagnia Anagoor mette
in scena temi diversi, che ruotano attorno al fulcro della lingua piegata alla
coercizione del potere, esige infatti apertura mentale e attenzione sincera,
coraggiosa, e costante. Allo spettatore è richiesto un ruolo attivo, che si esplica
non solo nell’accogliere senza pregiudizi uno spettacolo ibrido, che rompe gli
schemi del teatro tradizionalmente inteso e abdica a qualsivoglia
canovaccio, o nel mostrare una sensibilità profonda per la comprensione di un
materiale magmatico, frammentario ed eterogeneo, ma soprattutto richiede disponibilità al superamento del piano della rappresentazione. Quando raggiunge il piano simbolico, lo spettatore viene risucchiato in una tempesta di evocazioni che
investono l’intero pentagramma sensoriale e frugano negli angoli più riposti
dell’animo umano. Parole, visioni, suoni, gesti sono le tessere di un mosaico multiforme che solo a livello superficiale si propone di indagare il rapporto
problematico fra lingua e potere. L’obiettivo ultimo è, infatti, la
riattivazione della memoria: lo spettatore deve essere disposto a sprofondare
nell’inconscio collettivo, ad abbattere le fortificazioni erette dalla
rimozione, a vincere il senso di colpa, il terrore o l’angoscia di essere stato
o di scoprirsi, un giorno, preda o cacciatore. Questo interrogativo investe
tutti, sia gli spettatori che gli attori, i quali si trasformano a loro volta in spettatori
quando prendono posto nelle poltrone teatrali presenti in scena. La distanza fra attori
e pubblico è dunque abolita, a ribadire la comune appartenenza al genere umano.
Quando riesce a innescarsi una sorta di transfert
fra il coro e lo spettatore, facilitato anche dall’uso sapiente di canti
armonici, si può realizzare pienamente l’obiettivo ultimo della compagnia: proporre "un
percorso che sia in grado di suscitare l’immemorabile, quel sepolto che lascia
sgomenti e che proprio per questo - o per la natura stessa che accomuna tutti i
fatti umani - è sottoposto ad un processo di oblio". Un sepolto che, nel mio
caso, è riemerso a torcere lo stomaco, a premere il cuore contro la
gabbia toracica, ad attraversare con un sussulto le membra.
Il filo conduttore è il dialogo tra due membri della
Wehrmacht, il sottotenente Voss, appassionato linguista, e il capitano Aue, ottuso
fautore dell’ideologia nazionalsocialista, di stanza in Caucaso nel 1942. Gli
spettatori assistono a questo dialogo osservando due piccoli schermi che
sovrastano il palcoscenico: sono queste "finestre" aperte sul passato che
mettono in moto la rappresentazione, o meglio, la ri-evocazione. Oggetto di
questo dialogo è la possibilità di circoscrivere (definire con regole precise)
per poi cacciare (inteso come braccare) una popolazione di origini semitiche
denominata "Ebrei delle Montagne". Questo frammento, che risulta particolarmente
efficace per la scelta di riprodurlo in lingua originale, sfruttando tutta la
potenza fonetica del tedesco, è tratto dal romanzo Le benevole di Jonathan Littell. Le Eumenidi, le "benevole", altro
non sono che le Erinni della mitologia greca, divinità che perseguitano
colui che si macchia dell'omicidio di consanguinei. E di consanguinei, in
quanto appartenenti alla razza umana, sono i massacri e i genocidi perpetrati allo
scopo di estirpare l’una o l’altra etnia dall’organismo inscindibile delle
lingue e delle culture umane. Il Caucaso si pone quindi come emblema di questo intreccio
indistricabile. Si tratta infatti di una regione montuosa il cui complesso etnico-linguistico è refrattario alla violenza sezionatoria del potere, che con
modalità "veterinarie" tenta di catalogare e soggiogare ciò che è assente in ogni
categoria animale, ciò che è carattere precipuo e distintivo dell’uomo: il
linguaggio.
Gli esiti di queste politiche, se non fossero catastrofici
per le conseguenze prodotte, sarebbero del tutto grotteschi. Grottesca è la
ricerca di un fondamento scientifico a qualsivoglia purezza identitaria che
anima la discussione fra il sottotenente Voss e il capitano Aue, e grottesca è la politica
linguistica sovietica, che fa calare dall’alto, per quelle lingue caucasiche
che esistevano solo nell’oralità e non potevano contare sul retroterra consolidato
di una produzione letteraria scritta, un alfabeto creato ad hoc a partire dai
caratteri cirillici. Nell’ottica dell’antico principio del divide et impera, la
creazione artificiosa di questi alfabeti, l'uno diverso dall'altro, mira a
impedire la comprensione tra individui che parlano lingue affini. L’interesse
del potere per la lingua non deve tuttavia stupire: la conquista dello
spazio linguistico, con l’imposizione violenta di un codice estraneo, è una
delle prime, vincenti strategie messe in atto dai colonizzatori sui
colonizzati, proprio allo scopo di privare questi ultimi di una voce e dunque della
dignità.
Stante il decadimento a condizione animale attraverso la
sottrazione del linguaggio, appare coerente introdurre la nozione di caccia,
dove il verbo cacciare è sagacemente
declinato secondo le due principali accezioni della lingua italiana: "braccare"
ed "espellere". Un’espulsione che diviene fisica solo a seguito di un
procedimento più sottile, teso ad abolire le lingue
altre in favore della lingua dell'impero. Una caccia che, come ricorda la truce
leggenda di San Giuliano, da una singola goccia di sangue versato per dolo o banale incuria può assumere in breve tempo le proporzioni immani di una
carneficina. E quella che flagellò l’Europa fino all’estremo confine caucasico
durante gli anni del Reich fu una vera e propria caccia all’uomo, fiinalizzata alla carneficina e per la cui legittimazione era necessario stabilire regole
precise che identificassero, senza tema di dubbio, i caratteri distintivi delle "prede".
Le suggestioni zoomorfe attraversano tutti i frammenti dello
spettacolo. Il sacrificio di Ifigenia, giovane figlia di Agamennone sgozzata come
un agnello sacrificale per ottenere il favore degli dei in vista della guerra
contro Troia, prende corpo nei giovani attori che popolano alla spicciolata lo
spazio del palco. (Da Eschilo alla storia contemporanea corre un legame inscindibile,
a ribadire l’universalità delle tematiche indagate sia dalla tragedia
classica che da L.I.|Lingua Imperii.) I giovani attori portano sul capo una corona di rami e foglie, creata
utilizzando i materiali in scena e funzionale ad esprimere tutta l'innocenza delle vittime designate. Nessuna parola viene pronunciata durante
questa azione: a scandire i gesti e gli sguardi è un recitato fuori campo che in
inglese, russo, francese e tedesco, sgrana quindici consigli per genitori che
hanno perso un figlio. È lecito, tuttavia, chiedersi: quale responsabilità morale hanno i "padri",
nella scomparsa di un’intera generazione di giovani uomini e donne europei?
La spoliazione linguistica, il silenzio imposto con violenza
alle vittime, trova corrispondenza la spoliazione materiale dei vestiti,
abbandonati in un mucchio al margine della scena. La rimozione dell’abito
linguistico elimina dunque non solo il diaframma che permette il relazionarsi,
il com-prendersi, ma degrada il soggetto a creatura priva di parola, dunque
allo stato animale, a una bestia che è possibile macellare senza rimorsi. Ecco
dunque formarsi una catasta di corpi umani, seminudi, che richiamano alla
memoria le immagini abominevoli dei lager, delle stragi, dei genocidi. Privati
della lingua, non possiamo dirci esseri umani.
Le immagini che scorrono quindi sullo schermo di fondo
mostrano giovani dallo sguardo mite ridotti al silenzio da rozzi
morsi, resi ciechi da strumenti creati con lacci di cuoio e ferraglia, resi
sordi al gemito lugubre del vento di catastrofe che spazza il continente europeo.
L'accostamento al dominio animale è rafforzato dalla presenza di corna e pelli
di cervo, oltre che dai brevi fotogrammi che raffigurano un gregge di pecore. Per
quanto sia innegabile la distanza abissale che contrappone le vittime ai
carnefici, la cecità e il rifiuto di ascoltare a cui cede buona parte della
società civile, la mimica tragica dei tre giovani successivamente in scena, che
con una ripetizione ossessiva compiono gesti suggeriti da una presenza adulta alle
loro spalle, e infine, in un singulto autodistruttivo di responsabilità, scelgono la
via del suicidio, rimandano senz'altro a quella "zona grigia" così compiutamente
descritta da Primo Levi nei Sommersi e
salvati, e mettono in crisi ogni tentativo di riduzione manichea per aprire la
strada all’"impotentia judicandi".
Al dominio dell'irrazionale, che per l’uomo si spalanca attraverso l’ebbrezza
acefala dell’onnipotenza, il baratro della pulsione di morte, l’impero ignominioso
della disumanità, può opporsi soltanto la ragione
della memoria, l'unico argine, ancorché fallace, labile e imperfetto, per la futura salvaguardia della dignità umana.
Benché il mio giudizio sia nel complesso positivo, ritengo opportuno segnalare alcuni punti deboli dello spettacolo. Innanzitutto, considerando
i temi affrontati, bisognerebbe parlare più di Silentium imperii causa che
di Lingua Imperii. Questo titolo suggeriva
infatti che la compagnia si sarebbe occupata, anche solo tangenzialmente, dell’opera
di demolizione linguistica a cui il nazionalsocialismo condannò la lingua di
Goethe e di Rilke, un processo distruttivo ben descritto da Steiner nel saggio The Hollow Miracle. Alla folta serie di fonti letterarie in cui lo
spettacolo affonda le radici poteva essere dedicato un approfondimento maggiore,
mentre la parte visuale, per quanto sia apprezzabile nel contesto di una
commistione dei materiali drammaturgici, appare a tratti eccessiva. La dilatazione
del tempo può essere utile alla comunicazione tra attori e spettatori e può
stimolare una riflessione profonda solo se non diventa superflua e
ridondante. Tuttavia, in uno spettacolo che si propone di interpretare e rappresentare la
privazione del linguaggio, può sembrare in ultima analisi legittimo il ricorso
alla musica, al canto, alle immagini accuratamente accostate, poiché comunicano
in modo diretto con quella parte più profonda dello spettatore che, forse, nessun
linguaggio verbale è in grado di raggiungere.
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