sabato 8 novembre 2014

"Teorema del corpo – Donne scrivono l’eros"


Katia Chausheva

Anche una mia poesia è stata scelta per il volume Teorema del corpo - Donne scrivono l'eros, che uscirà prossimamente per la nuova collana Fibre – collettanee di poesia di FusibiliaLibri.
 
Ecco uno stralcio del comunicato di Dona Amati, poetessa e presidente dell'associazione Fusibilia, che si è fatta promotrice entusiasta del concorso e curerà l'edizione del volume.
 
Abbiamo predisposto il concorso Teorema del corpo – Donne scrivono l’eros mirando alla realizzazione di un volume articolato in due sezioni: Desideranti e Amanti, perché ciascuna autrice focalizzasse al meglio l’interpretazione dell’eros femminile, questa dimensione umana da sempre oppressa e sottaciuta, anche annientata violentemente dal predominio, spesso truce, della cultura maschilista. L’affrancamento delle donne da questo passa soprattutto attraverso il rafforzamento della propria immagine interiore come attrici e soggetti della pulsione erotica, volendo intendere questa come inclinazione alla vita e accettazione del proprio essere, con tutte le implicazioni naturali che questo comporta. Riconsiderare l’archetipo femminino, immanente in tutti gli aspetti naturali, preservare il valore della propria sessualità, questo è ciò che abbiamo chiesto alle donne di scrivere.
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giovedì 18 settembre 2014

“Spaesamenti”: è uscito il nuovo numero di Diwali – Rivista Contaminata!

Nel nuovo numero di Diwali – Rivista Contaminata scegliamo di perdere la strada, di smarrirci con lo spirito dell’artista.
“Eterno viandante, l’artista, non è mai davvero a casa in nessun tempo né luogo. Il processo creativo implica, infatti, l’attitudine a cogliere la realtà con occhi diversi e perdersi in connessioni insolite tra elementi distinti della quotidianità. Che resta identica a se stessa, eppure si disvela differente. Ed ecco lo spaesamento, uno smarrimento di fronte a (s)oggetti che mostrano inaspettatamente un volto nuovo, rendendosi ad un tempo familiari e irriconoscibili…”
Alessandra Carnovale

In questo numero

Oltre agli interessantissimi contributi degli altri autori, potete trovare una meravigliosa intervista sulla traduzione a Michele Piumini, un estratto della mia tesi di laurea sui corpi urbani e umani marginali di Londra narrati in Nessun Dove di Neil Gaiman e quattro recensioni: Le fantasticherie della donna selvaggia di Hélène Cixous, Poesie di Iosif Brodskij, La passione della nuova Eva di Angela Carter e Quando sorride il mare di Floriana Porta.

Iosif Brodskij

Hélène Cixous

Angela Carter

Leggete, diffondete, contaminate!

E aiutateci a organizzare l’evento contaminato che si terrà a Roma al Circolo degli Artisti il 14 dicembre prossimo: qui tutte le informazioni!


domenica 22 giugno 2014

"Trauma e creazione": nel nuovo numero di "Diwali - Rivista contaminata" quattro recensioni nella rubrica "InDicazioni"

“Filo conduttore delle scelte di questo numero è la nozione di trauma. “Trauma” è una lesione, una ferita dell’animo che può essere provocata dalla perdita di un oggetto amato, da una rottura violenta rispetto al consorzio sociale, da una lacerazione nel tessuto della realtà, da una condizione d’esilio e di straniamento. La scelta è quindi ricaduta, rispettivamente, su Fuochi di Marguerite Yourcenar, Le ballate dell’angelo ferito di Guido Ceronetti, Quattro novelle sulle apparenze di Gianni Celati e Senza orto né porto di Roberto Marzano.

In senso lato, dunque, la scaturigine del trauma è sempre una perdita, una mancanza, un vuoto che s’apre come baratro di senso. Pasticciando con l’etimo e pensando al termine tedesco che designa il sogno, ossia Traum, si potrebbe assimilare il trauma al dirompere di una logica onirica, surreale, folta di metafore e analogie; una logica altra, trasversale, tangente o perfino assente (forse solo vacillante) con la quale interpretare l’evolversi inarrestabile del nostro essere nel mondo.”

È uscito il numero cinque di Diwali – Rivista contaminata. Fil rouge è il rapporto fra trauma e creazione. Nella rubrica InDicazioni potete leggere quattro mie recensioni sull’argomento. Potete scaricare liberamente il numero e condividerlo accedendo a questo URL.

martedì 25 marzo 2014

“Donna – Immagine in divenire”: il nuovo numero di Diwali – Rivista Contaminata

Se un altro mondo è possibile, passa anche da qui, dal nostro abbandonarci al flusso della nostra energia per riconvertirla in libera costituzione della singola individualità, per sottrarla per sempre all’impresa della ripetizione.
L’Editorial
Oggi è uscito il nuovo numero di Diwali – Rivista Contaminata. Chiave di volta della pubblicazione n. 4 è l’immagine della donna in fieri, colta nel progressivo svilupparsi di un’identità autentica, affrancata dalle rigide maglie del discorso di genere.
Segnalo in particolare "Il palco nudo", magistrale riflessione-(contr)azione intorno a Orgia di P.P. Pasolini, e la presenza, nella rubrica InDicazioni, di due recensioni incluse anche in questo blog: La ragazza dalle Tredici Anime e La lente scura.
Qui il sito della rivista e qui il pdf scaricabile dell'ultimo numero.

domenica 16 marzo 2014

"La cathédrale engloutiee": Iosif Brodskij a Venezia


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Incurabile è la mobilità inquieta dell’occhio, che senza posa, per sua natura acquatico, guizza come pesce sulle fondamenta della memoria, intangibili e irreali nel loro costitutivo elemento: la Cathédrale engloutiee che è Venezia.
Il lettore che cercasse un canonico resoconto di viaggio, o che si aspettasse un elogio puramente estetico della città lagunare, rimarrebbe deluso. Brodskij non ha alcuna pretesa di comporre un testo strutturato e organico: nel labirinto della memoria non si può che “perdere l’orientamento”, trasportati alla deriva dal “fluire di un’acqua limacciosa nella stagione sbagliata dell’anno”.  Fluttuante come una gibigianna, moltiplicato all’infinito da un gioco di specchi ossidati, il racconto è il tentativo di catturare in una “rete impigliata nelle alghe sotto zero” l’elusivo riflesso di una città (im)materiale, che affiora alla superficie della memoria attraverso squarci e visioni, sospinta da branchi argentini di metafore acquatiche, marine, zoomorfe, mostruose. Di fronte a una topografia che si scioglie in una miriade d’ineffabili rivoli, è quindi necessario postulare la suprema autonomia dell’occhio. Impossibile soggiogare alla ragione le viscide squame della fenomenologia lagunare, che per un paradossale procedimento inverso è materia d’immaginazione che si fa marmo e carne. La percezione, seppur mediata dalla membrana osmotica del ricordo, precede la riflessione: “le superfici - cioè la prima cosa che l’occhio registra - sono spesso più eloquenti del loro contenuto”.
La ragione si offusca, è annebbiata: l’istanza cosciente dell’uomo cede di fronte all’incalzare del subconscio, che avanza come “il lento procedere del vaporetto attraverso la notte”. Lo sprofondare onirico verso il primordiale, il mitologico, l’oscura notte fondativa dell’uomo, non lascia tuttavia alcuno spazio per qualsivoglia indagine psicanalitica: i sogni si ribellano al grande Inquisitore, Freud, il sostrato inconscio dichiara la propria refrattarietà all'esegesi coerente della ragione. Non c’è interpretazione perché la cornice supera il contenuto e poiché il contenuto è avvolto dalla nebbia di calli campi canali, che conferisce alla città stessa una dimensione di atemporalità. Simulacro di non-esistenza, Venezia è dominio dell’immaginario, estuario al quale confluiscono in gorghi e si confondono le correnti marine di passato, presente, futuro.  L’unico riferimento temporale, ossia l’inverno, stagione elettiva dei soggiorni di Brodskij a Venezia, sembra farsi espediente di un inconscio desiderio/tentativo di ancorare, nella rigidità inclemente del ghiaccio, una città dalle fondamenta illusorie, dove una poderosa risacca diluisce, travolge e infine spazza via, trascinandole in alto mare, le categorie di spazio e tempo.  
L’autore, tuttavia, pare a proprio agio in questa sostanza sfuggente, effimera, salmastra come una lacrima, “il modo in cui una retina ammette la propria incapacità di trattenere la bellezza”, e sereno nella certezza che “non posseder[à]mai questa città”.



Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili, Adelphi 2012

domenica 19 gennaio 2014

Arthur Schnitzler e la ragazza dalle tredici anime

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Nella Ragazza dalle tredici anime viene alla luce un ritratto inedito di due personalità poliedriche e contraddittorie: quella del grande scrittore austriaco Arthur Schnitzler, prolifico autore di romanzi, racconti e opere teatrali di complessa indagine psicologica, e una giovane ragazza della media borghesia, Hedy Kempny, che intreccia con Schnitzler un lungo rapporto di affettuosa amicizia, attraversato da una tensione erotica mai compiutamente realizzata. Si tratta di una testimonianza eccezionale che rivela il lato più intimo dei due protagonisti, offrendo una chiave di accesso preziosa alla loro vita interiore. 

Arthur Schnitzler
Il carteggio tra i due è intercalato da estratti del diario di Hedy, che spiegano, ampliano e talvolta complicano l’intreccio di vicissitudini che la avvicinano o allontanano dal grande scrittore. Intelligente e anticonformista, Hedy è una ragazza che incarna tutte le antinomie e i drammi di un'epoca tumultuosa, sorta dalle ceneri dell'impero austroungarico e dalle conseguenze disastrose della prima guerra mondiale. Nel tentativo di tracciare un percorso di vita autonomo, libero e autentico, svincolato dal conformismo borghese e fedele alle proprie inclinazioni, Hedy è pronta a superare ogni ostacolo. Nonostante il grigio e monotono impiego in una banca, indispensabile per conservare un’effettiva indipendenza economica, si impegna a coltivare i molteplici talenti e le passioni che la caratterizzano: studia recitazione, segue un corso di ginnastica, assiste a concerti e spettacoli teatrali, legge moltissimo, viaggia ancor più spesso, cogliendo ogni occasione che le si presenti, se necessario con piglio spregiudicato.
Il suo è un volo ad ali spiegate verso la maturità, talora oscillante e incerto, talora stabile e determinato. Nel suo mondo interiore può capitare che la malinconia e la mutevolezza, come imprevedibili correnti d’alta quota, sopprimano gli impeti gioiosi e infantili, o al contrario che un’ingenua fiducia nel futuro rischiari un paesaggio desolato di solitudine e separazioni. Si tratta quindi di un processo evolutivo tortuoso, talora colmo di dolore, eppure mai offuscato dall’autoinganno, dalla negazione, dalla rimozione. Un processo che accomuna ogni individuo e con il quale una giovane lettrice (la specificazione di genere appare inevitabile) trova spontaneo identificarsi. 
Per Hedy il grande scrittore è sempre presente, con una parola di incoraggiamento o di conforto, a stringerle con calore la mano malgrado la distanza che spesso li separa, ad accompagnarla con sguardo attento e affettuoso nella costruzione di un'identità matura, in grado di scendere a patti con l'impossibilità della perfezione, l'incomunicabilità dei sentimenti, la solitudine connaturata all’esistenza. L’intesa fra i due, tuttavia, non si può incasellare nello schema frusto e prevedibile di un rapporto padre-figlia, perché sarebbe riduttivo oltre che impreciso. La natura di questa relazione è infatti eccezionale: si tratta di un incontro fra due anime che si mettono a nudo l’una di fronte all’altra. Un incontro che, come confermano le lettere, rappresenta un unicum nel vissuto di entrambi. Hedy, infatti, è portata a stabilire rapporti improntati all’ideale di una trasparente autenticità, e questa condizione, per una splendida e inspiegabile alchimia, si riesce proprio a concretizzare con Arthur Schnitzler. Incuriosito dalle "tredici anime” di questa ragazza sensibile e anticonvenzionale, lo scrittore la sprona a esprimersi, ad aprire cuore e anima, a raccontare tutto di sé. Di fronte a una vitalità tracimante, a un candore esuberante e insieme ingenuo, l'iniziale, apparente freddezza di Schnitzler si stempera negli anni in un amore costante, colmo di premure, accoglienza, comprensione. Proprio perché consapevoli che “l'anima è un vasto paese”, entrambi riescono a conservare la freschezza rivoluzionaria di un rapporto maturo, non esclusivo, in grado di accogliere i silenzi come le irrefrenabili loquacità dell'anima, un rapporto eccezionale che giunge a conclusione solo per la morte prematura di Schnitzler, avvenuta il 31 ottobre 1931.

Ai lettori resta un’immagine di ariosa libertà e l'impressione che la felicità, per quanto sia una chimera, possa balenare imprevista in alcuni rapporti interpersonali. Questo, ovviamente, a condizione di essere disposti a mettersi in gioco, a interrogare le nostre paure più recondite e inconfessabili, a comprendere gli altri senza idee preconcette. In sostanza è quindi indispensabile porsi nell'atteggiamento corretto che consente di “cercare e saper riconoscere”, come scrisse Calvino nelle Città invisibili, “chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Hedy Kempny e Arthur Schnitzler hanno saputo ritagliare questo spazio l’uno per l’altra nel vasto paese delle loro anime.

Hedy Kempny, Arthur Schnitzler, La ragazza dalle tredici anime, Feltrinelli 1987


Alcune riflessioni sullo spettacolo "L.I. | Lingua Imperii" della compagnia Anagoor in scena al Teatro Elfo Puccini



Immagine reperita sul sito Web http://www.anagoor.com/

L.I. | Lingua Imperii non è uno spettacolo al quale assistere come inerti spettatori. 
Il composito linguaggio drammaturgico con cui la compagnia Anagoor mette in scena temi diversi, che ruotano attorno al fulcro della lingua piegata alla coercizione del potere, esige infatti apertura mentale e attenzione sincera, coraggiosa, e costante. Allo spettatore è richiesto un ruolo attivo, che si esplica non solo nell’accogliere senza pregiudizi uno spettacolo ibrido, che rompe gli schemi del teatro tradizionalmente inteso e abdica a qualsivoglia canovaccio, o nel mostrare una sensibilità profonda per la comprensione di un materiale magmatico, frammentario ed eterogeneo, ma soprattutto richiede disponibilità al superamento del piano della rappresentazione. Quando raggiunge il piano simbolico, lo spettatore viene risucchiato in una tempesta di evocazioni che investono l’intero pentagramma sensoriale e frugano negli angoli più riposti dell’animo umano. Parole, visioni, suoni, gesti sono le tessere di un mosaico multiforme che solo a livello superficiale si propone di indagare il rapporto problematico fra lingua e potere. L’obiettivo ultimo è, infatti, la riattivazione della memoria: lo spettatore deve essere disposto a sprofondare nell’inconscio collettivo, ad abbattere le fortificazioni erette dalla rimozione, a vincere il senso di colpa, il terrore o l’angoscia di essere stato o di scoprirsi, un giorno, preda o cacciatore. Questo interrogativo investe tutti, sia gli spettatori che gli attori, i quali si trasformano a loro volta in spettatori quando prendono posto nelle poltrone teatrali presenti in scena. La distanza fra attori e pubblico è dunque abolita, a ribadire la comune appartenenza al genere umano. 
Quando riesce a innescarsi una sorta di transfert fra il coro e lo spettatore, facilitato anche dall’uso sapiente di canti armonici, si può realizzare pienamente l’obiettivo ultimo della compagnia: proporre "un percorso che sia in grado di suscitare l’immemorabile, quel sepolto che lascia sgomenti e che proprio per questo - o per la natura stessa che accomuna tutti i fatti umani - è sottoposto ad un processo di oblio". Un sepolto che, nel mio caso, è riemerso a torcere lo stomaco, a premere il cuore contro la gabbia toracica, ad attraversare con un sussulto le membra.

Il filo conduttore è il dialogo tra due membri della Wehrmacht, il sottotenente Voss, appassionato linguista, e il capitano Aue, ottuso fautore dell’ideologia nazionalsocialista, di stanza in Caucaso nel 1942. Gli spettatori assistono a questo dialogo osservando due piccoli schermi che sovrastano il palcoscenico: sono queste "finestre" aperte sul passato che mettono in moto la rappresentazione, o meglio, la ri-evocazione. Oggetto di questo dialogo è la possibilità di circoscrivere (definire con regole precise) per poi cacciare (inteso come braccare) una popolazione di origini semitiche denominata "Ebrei delle Montagne". Questo frammento, che risulta particolarmente efficace per la scelta di riprodurlo in lingua originale, sfruttando tutta la potenza fonetica del tedesco, è tratto dal romanzo Le benevole di Jonathan Littell. Le Eumenidi, le "benevole", altro non sono che le Erinni della mitologia greca, divinità che perseguitano colui che si macchia dell'omicidio di consanguinei. E di consanguinei, in quanto appartenenti alla razza umana, sono i massacri e i genocidi perpetrati allo scopo di estirpare l’una o l’altra etnia dall’organismo inscindibile delle lingue e delle culture umane. Il Caucaso si pone quindi come emblema di questo intreccio indistricabile. Si tratta infatti di una regione montuosa il cui complesso etnico-linguistico è refrattario alla violenza sezionatoria del potere, che con modalità "veterinarie" tenta di catalogare e soggiogare ciò che è assente in ogni categoria animale, ciò che è carattere precipuo e distintivo dell’uomo: il linguaggio. 
Gli esiti di queste politiche, se non fossero catastrofici per le conseguenze prodotte, sarebbero del tutto grotteschi. Grottesca è la ricerca di un fondamento scientifico a qualsivoglia purezza identitaria che anima la discussione fra il sottotenente Voss e il capitano Aue, e grottesca è la politica linguistica sovietica, che fa calare dall’alto, per quelle lingue caucasiche che esistevano solo nell’oralità e non potevano contare sul retroterra consolidato di una produzione letteraria scritta, un alfabeto creato ad hoc a partire dai caratteri cirillici. Nell’ottica dell’antico principio del divide et impera, la creazione artificiosa di questi alfabeti, l'uno diverso dall'altro, mira a impedire la comprensione tra individui che parlano lingue affini. L’interesse del potere per la lingua non deve tuttavia stupire: la conquista dello spazio linguistico, con l’imposizione violenta di un codice estraneo, è una delle prime, vincenti strategie messe in atto dai colonizzatori sui colonizzati, proprio allo scopo di privare questi ultimi di una voce e dunque della dignità.

Stante il decadimento a condizione animale attraverso la sottrazione del linguaggio, appare coerente introdurre la nozione di caccia, dove il verbo cacciare è sagacemente declinato secondo le due principali accezioni della lingua italiana: "braccare" ed "espellere". Un’espulsione che diviene fisica solo a seguito di un procedimento più sottile, teso ad abolire le lingue altre in favore della lingua dell'impero. Una caccia che, come ricorda la truce leggenda di San Giuliano, da una singola goccia di sangue versato per dolo o banale incuria può assumere in breve tempo le proporzioni immani di una carneficina. E quella che flagellò l’Europa fino all’estremo confine caucasico durante gli anni del Reich fu una vera e propria caccia all’uomo, fiinalizzata alla carneficina e per la cui legittimazione era necessario stabilire regole precise che identificassero, senza tema di dubbio, i caratteri distintivi delle "prede". 
Le suggestioni zoomorfe attraversano tutti i frammenti dello spettacolo. Il sacrificio di Ifigenia, giovane figlia di Agamennone sgozzata come un agnello sacrificale per ottenere il favore degli dei in vista della guerra contro Troia, prende corpo nei giovani attori che popolano alla spicciolata lo spazio del palco. (Da Eschilo alla storia contemporanea corre un legame inscindibile, a ribadire l’universalità delle tematiche indagate sia dalla tragedia classica che da L.I.|Lingua Imperii.) I giovani attori portano sul capo una corona di rami e foglie, creata utilizzando i materiali in scena e funzionale ad esprimere tutta l'innocenza delle vittime designate. Nessuna parola viene pronunciata durante questa azione: a scandire i gesti e gli sguardi è un recitato fuori campo che in inglese, russo, francese e tedesco, sgrana quindici consigli per genitori che hanno perso un figlio. È lecito, tuttavia, chiedersi: quale responsabilità morale hanno i "padri", nella scomparsa di un’intera generazione di giovani uomini e donne europei?
La spoliazione linguistica, il silenzio imposto con violenza alle vittime, trova corrispondenza la spoliazione materiale dei vestiti, abbandonati in un mucchio al margine della scena. La rimozione dell’abito linguistico elimina dunque non solo il diaframma che permette il relazionarsi, il com-prendersi, ma degrada il soggetto a creatura priva di parola, dunque allo stato animale, a una bestia che è possibile macellare senza rimorsi. Ecco dunque formarsi una catasta di corpi umani, seminudi, che richiamano alla memoria le immagini abominevoli dei lager, delle stragi, dei genocidi. Privati della lingua, non possiamo dirci esseri umani.

Le immagini che scorrono quindi sullo schermo di fondo mostrano giovani dallo sguardo mite ridotti al silenzio da rozzi morsi, resi ciechi da strumenti creati con lacci di cuoio e ferraglia, resi sordi al gemito lugubre del vento di catastrofe che spazza il continente europeo. L'accostamento al dominio animale è rafforzato dalla presenza di corna e pelli di cervo, oltre che dai brevi fotogrammi che raffigurano un gregge di pecore. Per quanto sia innegabile la distanza abissale che contrappone le vittime ai carnefici, la cecità e il rifiuto di ascoltare a cui cede buona parte della società civile, la mimica tragica dei tre giovani successivamente in scena, che con una ripetizione ossessiva compiono gesti suggeriti da una presenza adulta alle loro spalle, e infine, in un singulto autodistruttivo di responsabilità, scelgono la via del suicidio, rimandano senz'altro a quella "zona grigia" così compiutamente descritta da Primo Levi nei Sommersi e salvati, e mettono in crisi ogni tentativo di riduzione manichea per aprire la strada all’"impotentia judicandi".

Al dominio dell'irrazionale, che per l’uomo si spalanca attraverso l’ebbrezza acefala dell’onnipotenza, il baratro della pulsione di morte, l’impero ignominioso della disumanità, può opporsi soltanto la ragione della memoria, l'unico argine, ancorché fallace, labile e imperfetto, per la futura salvaguardia della dignità umana.

Benché il mio giudizio sia nel complesso positivo, ritengo opportuno segnalare alcuni punti deboli dello spettacolo. Innanzitutto, considerando i temi affrontati, bisognerebbe parlare più di Silentium imperii causa che di Lingua Imperii. Questo titolo suggeriva infatti che la compagnia si sarebbe occupata, anche solo tangenzialmente, dell’opera di demolizione linguistica a cui il nazionalsocialismo condannò la lingua di Goethe e di Rilke, un processo distruttivo ben descritto da Steiner nel saggio The Hollow Miracle.  Alla folta serie di fonti letterarie in cui lo spettacolo affonda le radici poteva essere dedicato un approfondimento maggiore, mentre la parte visuale, per quanto sia apprezzabile nel contesto di una commistione dei materiali drammaturgici, appare a tratti eccessiva. La dilatazione del tempo può essere utile alla comunicazione tra attori e spettatori e può stimolare una riflessione profonda solo se non diventa superflua e ridondante. Tuttavia, in uno spettacolo che si propone di interpretare e rappresentare la privazione del linguaggio, può sembrare in ultima analisi legittimo il ricorso alla musica, al canto, alle immagini accuratamente accostate, poiché comunicano in modo diretto con quella parte più profonda dello spettatore che, forse, nessun linguaggio verbale è in grado di raggiungere.

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